Da questa settimana iniziano i mondiali di calcio del Qatar. Dal 20 novembre al 18 dicembre, infatti, i riflettori saranno puntati sul succitato emirato del Medio Oriente.
Un’occasione unica, quella di far da cornice ad una delle rassegne sportive più importanti, in primis per la popolarità del gioco in questione e, soprattutto, per il suo ritorno in termini economici e di visibilità.
C’è solo un “piccolo” problema, se così lo vogliamo definire, ossia che questa vetrina è macchiata col sangue. Sangue non in una trasposizione metaforica, considerando le denunce di organizzazioni internazionali come Amnesty International e Humans Right Watch.
Per la costruzione degli stadi infatti, lo stato qatariota avrebbe richiamato a sé un vero e proprio flusso migratorio, allettati da promesse rilevatesi perlopiù fasulle, per tramutarlo in un flusso di schiavitù dato dall’applicazione della cosiddetta “kafala” e dai conseguenti ricatti che la stessa misura consente.
Non solo il controllo degli operai, tramite l’annullamento dei diritti, ma neppure garantendo loro le misure di sicurezza necessarie all’interno dei faraonici cantieri, in particolare considerando l’elevate temperature che si possono raggiungere in quel territorio.
Si parla di oltre 6.500 lavoratori deceduti, una stima tra l’altro al ribasso e realizzata incrociando i dati di alcuni Paesi limitrofi da cui gli stessi sarebbero partiti. Un costo in termini di vite umane troppo elevato, da qualunque punto di vista lo si guardi, un genocidio di classe per una vetrina.
Dalla nomina del Qatar a Paese ospitante sono passati 12 anni, e da allora l’ente organizzativo, la FIFA, è stata investita in varie inchieste giudiziarie a diverso titolo (in primis per corruzione, ndr) riguardanti anche la stessa votazione dell’emirato. Dei 22 membri del comitato esecutivo di allora, 10 sono finiti sott’inchiesta o radiati.
Non che le risposte politiche e istituzionali siano state in generale adeguate dal 2010 in poi, pur consapevoli della situazione giuridica qatariota che si pone in totale diniego sui diritti riconoscibili verso numerose categorie di persone e/o di minoranze, diritti di cui poi l’Occidente si fa ipocritamente portavoce.
Ipocritamente perché, nella società capitalistica, viene sempre prima l’introito rispetto ai valori da riconoscere, lo spettacolino per farci beare mentre si muore, garantire il “panem et circensens” prima di tutto.
In conclusione, boicottare i mondiali in Qatar, sconsigliandone la visione a favore di un qualsiasi altro passatempo, non è la scelta migliore ma è senza dubbio la più necessaria. Il capitale ci vuole come continui clienti senza scrupoli, specchio della sua stessa bramosia, e noi dobbiamo essere in grado di rifiutare il prodotto.
Ignorare sì, ma non dimenticare, sottolineando quanto sia doveroso ricordare cosa sia avvenuto in Qatar, e che possa costituire un monito affinché non si possa ripetere in alcun modo.